Quando ti ammalasti di vergogna 
nessuno dubitò mai della mia inadempiosa larva gigante,
nessuno porse mai un dubbio che fosse tale a valersi, 
quanto mai operosa fu la larva che brandisti.
Quando il mio culo pelato 
scarabocchiò quei vaffanculo 
che mai seppi mostrarti per gesta
nessuno ebbe da sciogliere quesiti di riguardo 
verso il pulito culo che ti mostravo,
nessuno calò la sua lingua in quel posto 
per assaggiarne il sapore.
Tutto era amore di fronte al tuo decubito violaceo 
teso alla cerca d’un bastone.
Quando m’opposi alla bocca 
che ti faceva modesta per quantità e rigurgito di umori,
che se ben pensi avrai prima di me saggiato in quanto di cisterna,
nessuno tese un dito di controllo a reperirti 
fame o sazietà o quale dose giusta o carente
E come ritrovarsi dove allora giunsi 
preso per mandibole tenaci 
che solo tardi ricordai esser le tue.?
E come compiacerti di un bene che mai ho goduto 
se non per meritati stacchi di polso?
Quando comparve l’occhio vigile 
a coniugarmi favola e larva in una sola litania
nessuno paragonò Caina alla mia casa 
sia ben che in essa sempre vi sia trovato il male.
La porta aperta del tuo addome era ben altra 
e di riscontri e semi transitante.
Quando mangiai della mia merda e ruminai concime 
nelle serrate chiuse d’ocra sciolta
nessuno mi diresse d’un dì d’autunno medico 
lungo il serpente che dal fienile ti scorge
nessuno barcollò con me, 
tanto mi fece da spalla, 
meno mi fu d’uomo conforto.
Ora mi siedo teco al giudice silenzio 
che il vizio dei Poeti e di morir già morti.
 
